La vera scoperta dell’edizione 2012 del festival di Torino è sicuramente la retrospettiva che ci ha consentito di conoscere il regista periferico e altro Eric Marie Ciancialosky.
La riscoperta della sua cinematografia, con l’accurato apparato critico di Filippo Locergi e Giandomenico Pierilli, ci permette oggi di apprezzare meglio la filmografia poliedrica, palindroma e persino polisemica dell’autore, in cui il dinamismo festoso e ingenuo di una purezza di sguardo incontaminata, nasconde in realtà il darsi carsico di un sintomo dell’autore stesso in quanto lui, che lo scava da dentro minando le certezze consolatorie del pubblico che cerca sempre le certezze.
Il suo cinema e la sua arte hanno come obbiettivo chiaro e come oggetto sfuggente il continuum del tempo nella sua accezione decostruita che si sfarina andando e venendo e si incaglia , quando meno te lo aspetti, diventando altro da sé e da noi . Forse.
Luminescenza di un’essenza o fantasma, grande altro, super io?
Come si evince dal titolo del suo esordio del suo medio metraggio del 1977 “Il mercante di pietre” è il mondo del commercio una delle ossessioni primarie del suo cinema .
Attraverso la testimonianza visiva di Gigi, l’oste zozzone dell’alimentari sotto casa sua ( noto truffatore che invece delle rosette ti vende pagnotte che parono serci da cui il titolo) ripreso tra nubi in viaggio, tanti sfiati di venti e campagne aride e fangose e tristissime e scogliere del mare del nord senza il mare, il regista, in un percorso a rebours in cui la regressione nostalgica del ladrone e la ripetizione del passato sono istanze per il futuro , dichiara un addio. Addio alla spesa in quella bottega, sì ai supermercati e sì deciso alla Vita.
Nel suo secondo film, il bellissimo Pecuri, frutto di sette anni di riflessione e di un tormentato percorso interiore ed esteriore fatto di malattie seborroiche e ripensamenti intellettuali fino alla conversione al אברהם בן שמואל אבולעפיה, il regista fa parlare la nostalgia di un mondo possibile.
Un uomo solo che incarna proprio l’uomo solo, vestito con un sacco di juta e in preda ad un priapismo che invade l’inquadratura per gli anni di astinenza sessuale della vita da mistico, abita un non- luogo da solo e davanti ad una ciotola di minestra già consumata ma ancora in grado di specchiare, tra la brodaglia, il suo volto segaligno che soffre per noi, dichiara: “Che vita di merda!”.
Dalla finestra si ode sempre il controcanto sconsolato della Natura, stridori di bestie e barriti di mostri tropicali da cui lo spaesamento dello spettatore che non capisce nulla ed è però portato a riflettere assai sui tanti perché.
Nello sguardo opaco della solitudine e negli scarsi silenzi consentiti dalle bestie, l’attore monologa per tredici ore con tono monocorde e oracolare sull’avvento di una nuova pastorizia, regno immaginario di uno stato di natura che rimetterà al loro posto i misteri delle cose.
E’ inutile sottolineare la critica alla società dei consumi confermata dal climax dove un anatema contro i buoni pasto e un falò di fustini di detersivo che sfumano in immagini “ipnagogiche” ci portano per mano poi, con un cortocircuito visivo a favore di camera, ad uno struggente morphing mai usato così bene al cinema: il volto dell’uomo protagonista si muta in un muflone.
Ibridismo, metamorfosi ?
Il film si conclude con una bellissima intuizione francescana sugli animali che cantano, un coro di pecore che intona un profluvio di belati in una panoramica sul nulla di una pietraia e in un sibilo di solfatara. Sbuffi di altrove tra valli e colline.
Seguono poi gli anni della riflessione austera sulle dinamiche della cultura che lo portano a realizzare la mai abbastanza lodata trilogia Feticci.
Il primo film, Primo, discute dell’oggetto kafkiano dell’Odradek, che nessuno capisce cosa sia, ma l’analisi critica è mutilata e resa impossibile all’origine dall’autore stesso che gioca con i suoi esegeti perché il film non esiste. Nel secondo capitolo della trilogia, L’architetto tropical, il regista approfondisce il tema architettonico mai abbastanza studiato del kampong giavanese mentre nel terzo, Ermeneutica per signore, attua una torsione dell’ermeneutica classica quasi a spezzarne la storia grazie ad un remake fedele di Scarlett Express del 1932 con tanto di statuoni e talmente fedele all’originale da essere accusato di plagio . Il regista si giustificherà difendendosi con l’enigmatica frase: “ Questa è un’epoca in cui e pertanto”.
Recuperata e restaurata poi anche l’unica copia rimasta del suo ultimo film, dato per perso e ossessione dei cinefili misogini che accusavano della scomparsa la moglie piromane dell’artista, ovvero il panta colto “Eu tana zia” che gioca sullo slittamento semantico con il termine eutanasia e investe lo spettatore con l’urgenza dei temi leggeri della morte e del fato che porta sempre comunque alla morte.
Temi che qui si intersecano e si incagliano in un languore adolescenziale ed erotico nato dal ricordo di una zia pettoruta con cui l’artista giocava a nascondino e da cui fu iniziato al sesso e lavato fino all’età di 27 anni.
Memorabile l’inquadratura iniziale della zia infermiera al capezzale di un anziano abitante del villaggio preistorico mentre tenta di finirlo con una dolce morte soffocandolo al petto e pronunciando il poetico afflato : “Schiatta” seguito dalla pungente consapevolezza di lui “ Mortacci ma io muoio !”
Regista quindi che grazie alla sua ricchezza espressiva e alla sua testimonianza, conferma che il cinema è fondamentalmente la solitudine di chi guarda un film che resta in un altrove inaccessibile che ci pervade e sovrasta : la fantasia .