I buoni risultati di ascolto di Rai premium, canale cimiteriale nato senza molte speranze con la logica della grande discarica o fossa comune dove accumulare le spoglie della fiction italiana rimandata in loop per un pubblico goloso, suggeriscono di tentare nuove esperienze con l’esistente.
Creare cioè un’ecologia della fiction, a impatto zero e costi contenuti.
Da una parte l’assoluto cinismo che contraddistingue la filiera di comando, editor dirigenti e vari parassiti di filiera di cui io stesso faccio parte, nell’intento , a loro dire inevitabile, di colonizzare l’immaginario di un popolo di dementi con la demenza che il popolo chiede a gran voce, demenza che appartiene invece primariamente ai decisori a cui il popolo risponde con uno sguardo muto tra lo stupore e la resa, non aiuta.
Nessuna pietà cioè per un pubblico immaginato che invece, anche se è incarnato da milioni di monadi, non necessariamente segue quello che sta vedendo ma , arreso al disastro del quotidiano, non può, non possiamo, non consolarsi sonnecchiando, catapultato in una visione ad esempio di una Gubbio-legoland dove un atletico prete da porno mature risolve casi che sfuggono ai carabinieri e dove i carabinieri stessi sono simpatici (?) e giusti(?).
Dall’altra, l’altrettanto insopportabile chiacchiericcio di molti addetti ai lavori, lamentosi ma almeno sentimentali, che esprimono la loro frustrazione in un discorso svuotato di fecondità e spesso di ironia, come dei fantasmi che hanno sbranato la loro ombra, nostalgici di una qualità “americana” e pronti a dimenticare dove viviamo e cosa facciamo.
Entrambe le parti sono poi ripiegate su una crisi di coscienza inspiegabile: invece di esaltare il proprio talento unico e cioè avere creato e mantenuto nel tempo una filiera miracolosa nel partorire sempre e solo merda, una sorta di qualità totale giapponese ma ribaltata, se ne lamentano.
Penitenti nell’anima, come veri fratacchioni sono costretti a darsi un ruolo sociale e di potere che non hanno, in un cortocircuito dove immaginano di creare appunto l’immaginario o peggio le Narrazioni e portano invece la croce di sonnacchiose “responsabilità” (i bambini, la violenza, i valori della famiglia) con corollario di colpe eventuali tutte inventate per calcificare censure auto imposte.
Un languore continuo nell’iperuranio di una fiction possibile e sperata, sempre a caccia di qualche modello colonialista da citare come esempio, senza discuterne l’essenza ideologica.
Senza alcuna convulsione e desiderio da trasformare almeno in rabbia, sono, siamo, spiaggiati tra la sabbietta del giardino zen di viale Mazzini e qualche convegno sul futuro irreale in cui una redenzione ribalterà il miracolo di macchina industriale perfetta perché dispensatrice sempre di merda, in un’officina di artisti rinascimentali.
Cosa ci resta allora oltre a condannarci ad una frivolezza accidiosa?
Resuscitare il prodotto in un contesto ecologico e cioè non producendolo più.
Prendere l’immensa produzione di ore e ore, giorni, di vomitevoli faccioni pontificanti, edificanti mostri da deriva sonnambula, escort che recitano figlie esemplari, san franceschi, drammoni da singulto , e rimontarli tra di loro, riciclarli.
Non certo con la finalità di un surrealismo politico che sveli le “regole del gioco” come nella compiaciuta e colta “provocazione”, tutta digerita metabolizzata e disarmata già sul nascere, di un programma che ha, a detta della televisione stessa, “rivoluzionato la televisione“.
Ma con veri e proprio intenti narrativi: fare fiction con gli scarti e le frattaglie di varie fiction diverse, non rispettando i perimetri, gli universi semantici e i ruoli consolidati dei personaggi. Sciogliere i lacci nevrotici di una coerenza mai reale.
Rimettendo in circolo così le intelligenze sedate di sceneggiatori stanchi e sfiancati dall’ovvietà delle prassi e proponendo loro una sfida vera basata sulla necessità: risparmiare, tagliare i costi, rispettare il dogma ecologista del contemporaneo, aguzzare l’ingegno con il nulla esistente e riabilitarlo in qualcosa di nuovo: un nuovo nulla a impatto zero.
I vantaggi mi sembrano evidenti. In primo luogo il risparmio economico, non creare più fiction eviterebbe di inquinare l’etere di cataclismi di pensiero sclerotico con l’aggravante di essere anche e persino nuovo. E costoso.
Le ricadute sull’occupazione riguarderebbero principalmente i registi e la filiera del funzionario .
I registi, assecondando da sempre una regia fatta di tre sole note, campo controcampo e totale, hanno reso possibile questa prospettiva di collazione tra materiali eterogenei e si sono licenziati da soli ammettendo la loro inutilità e potendo essere sostituiti fin da subito persino da un cieco con un buon assistente. Cieco anche lui.
Il funzionario ha invece da sempre solo un ruolo catechizzante e di censura, parafulmine per giustificare il verminaio di raccomandazioni che passa dalle alte sfere. Tronfio e incistito nella sua lacrimale condanna di carcerato , sedato in un’ apoplessia perpetua che si risveglia in isteria e nostalgico di un barlume di vita che fu (l’infanzia?), castrato da dirigenti sadici il cui unico scopo è perseguitarlo e poi ignorarlo, potrebbe mantenere qualche ruolo riciclandosi in “amico degli artisti”, stimato confessore di pettegolezzi, frequentatore di macchinette del caffè deambulando leggero tra i corridoi senza l’onere insopportabile di recitare un lavoro.
La liberazione mentale e salvifica sarebbe anche dello sceneggiatore, che potrebbe assecondare la sua endemica pigrizia, non scrivendo finalmente più nulla ed evitando semestri di discussioni sulla singola battuta di una psicologia ameboide di qualche personaggio minore, magari poi tagliato, o sull’arco trasformazionale del cane poliziotto all’interno degli archi trasformazionali di un porticato di archi orizzontali e tutti trasformazionali.
Liberi quindi da un contesto paludoso, funzionari e sceneggiatori potrebbero trovare un riscatto creativo a costo zero: creare una serie ospedaliera con una suora che indaga omicidi efferati aiutata da un cane, un prete di Gubbio che impersona anche un medico in famiglia, Arcuri che rinasce nell’agiografia di un padre Pio.
La coerenza narrativa sarebbe garantita soprattutto da quel rumore bianco di fondo, che attraversa e cementifica l’ecosistema fiction, dai dialoghi alle ambientazione e alle regie. Atmosfera tra il tombale e il centro commerciale, tipica dello zombie movie ma vero asse paradigmatico di tutta la produzione.
Il pubblico accetterebbe tutto, ne sono certo, con una leggera flessione di audience tollerabile e compensata dal risparmio. Lo farebbe per assecondare quella deriva nietzcheana dello spettatore contemporaneo ovvero il passaggio dal non volere nulla a volere proprio il Nulla, quella nevrosi che porta il nuovo spettatore-consumatore ad essere bulimico senza oggetto, non perché non mangia nulla ma proprio perché mangia il Nulla.
Il consumatore sarebbe sollecitato a riconoscere le citazione e i rimandi interni e potrebbe anche intervenire con lettere ai giornali e intasando i centralini della rete o partecipando con modalità interattive e decidendo, in una versione per “giovani”, i destini narrativi dei propri beniamini.
Si potrebbe anche immaginare un sottoinsieme hot, a pagamento e con rispetto della privacy, dove le storie prendano una gaudente e inaspettata deriva passionale o da pornomani, utilizzando l’infinito materiale gratuito scaricato da internet e incollandolo con semplici accortezze, favoriti in questo dalla fisiognomica degli attori di fiction italiana che sono anche e sempre perfetti attori potenziali di porno.
Certo inquieterebbe il rischio fantascientifico di una macchina perfetta nel futuro, il solito computer che abbatte i costi senza errori, che faccia tutto lui: incollare, segmentare e ricreare. Ma tutto sarebbe evitato da rivolte sindacali, da liti intestine tra scuole di informatici e favorirebbe invece stanziamenti a pioggia di fondi per ricerche oltre a decennali dibattiti tra intellettuali italiani , filosofi soprattutto, sul destino dell’uomo nell’era della Tecnica.
Uno dei migliori articoli di sempre